danza,  yoga

Pensieri di una danzeducatrice, 9 anni dopo.

Non sono matto, so benissimo che giocavo con l’impressione che quello non fossi io ma un ragazzo abbandonato dentro lo specchio.
Figliolo non sei matto, giochi con le senzazioni, come tutti i ragazzini della tua età. Le interroghi. E non smetterai mai di farlo. Anche da adulto. Anche quando sarai molto vecchio. Tieni bene a mente una cosa: per tutta la vita, dobbiamo sforzarci di credere ai nostri sensi.

Daniel Pennac, Storia di un corpo
Improvvisazione, Scuola di formazione per danzeducatore® Mousiké condotta da Franca Zagatti, 2012
Improvvisazione, Scuola di formazione per danzeducatore® Mousiké, 2012

La curiosità è sempre stata per me motore naturale della conoscenza, della ricerca. Così, per seria curiosità, alla soglia dei trent’anni mi imbarcai sulla nave di un nuovo percorso formativo basato sull’analisi del movimento di Rudolf Laban, con fiducia e voglia di lasciarmi portare, di abbandonarmi al viaggio.
Ero consapevole delle contraddittorietà che la scelta di investire su una formazione in pedagogia della danza generava in me: il desiderio di approfondire un cammino artistico e pedagogico già intrapreso, di arricchirlo con strumenti metodologici e operativi, di inserirlo in una cornice teorica di riferimento si scontrava con il timore di portare alle estreme conseguenze una presa di posizione controcorrente, di seguire una passione che se da una parte è capace di nutrire all’infinito un cammino personale e professionale prezioso, dall’altra comporta processi trasformativi a volte destabilizzanti. Ma la Via era aperta: il desiderio di andare oltre è stato più forte del dubbio. Ne sono felice ancora oggi.

La scelta è stata quella di immergersi nella contraddizione, di lasciarsi condurre attraverso.
Ricordo che a volte uscivo dalle sessioni rigenerata, gioiosa, entusiasmata dalle scoperte: quanto mi hanno arricchita le esplorazioni dei fattori di movimento, le improvvisazioni e il lavoro di analisi degli effort (impulsi dinamici) nella capacità di auto-osservazione e nello sviluppo di una maggiore consapevolezza del mio movimento, corporeo e mentale. L’analisi labaniana mi aveva spalancato un universo di possibilità di lettura, di descrizione, di composizione che sarebbe bastata a riempire più di una vita. Anche solo affacciarsi sulla vastità che questi studi offrono lascia intuirne la ricchezza!
Non è semplice tradurre in scrittura lo studio pratico, dare parola a ciò che non ne ha, a ciò che per sua natura è oltre lo stesso linguaggio verbale. Tuttavia è un esercizio utile che aiuta a fissare e rielaborare esperienze che possono essere intense e capaci di suonare corde profonde, attivando mutamenti. Le parole non possono contenere l’esperienza, ma cercarle comunque – le più semplici, le più chiare – contribuisce a nutrire il processo circolare di integrazione fra corpo e mente.

Durante la prima fase della Scuola di formazione in danza educativa e sociale Mousiké per danzeducatori®, tornavo a casa dopo il fine settimana di lavoro, piena di energie, stimoli e materiale su cui lavorare. Sentivo che le scoperte che il mio corpo aveva fatto in studio continuavano a trasformarlo anche a distanza, come se, una volta attivato un processo, quello potesse proseguire da solo, continuando a risuonare e generando nuovo movimento. Altre volte toccare le mie resistenze, i limiti, i nodi e le sofferenze mi lasciava svuotata, scossa o turbata. Ma proprio in questa ricchezza di sfumature, nella complessità delle stratificazioni interiori, dei tanti piani e tanti livelli che si possono indagare, trovo ancora oggi il senso di questa follia necessaria che è la pratica somatica creativa come strumento di ricerca e di condivisione capace di creare collegamenti, ponti, passaggi sotterranei, vitali, tra pensieri ed emozioni, e tra persone.

Quello che mi balza agli occhi ripensando al percorso di quegli anni è stato un evidente cambio di rotta rispetto a ciò che avevo provato fino ad allora. Non tanto nei contenuti, ma nella qualità con la quale ero invitata a pormi in relazione con essi. Spesso nel lavoro corporeo (ma non solo), nella danza, nelle sessioni di yogasana, nella vita quotidiana, è la forma il nostro punto di riferimento: un’attitudine esecutoria, performativa, tinge il nostro vissuto e i nostri gesti sono abitati più da ciò che pensiamo di essere, o a cui aspiriamo, che da ciò che siamo. Se al contrario spostiamo il focus dal fuori al dentro, lasciandoci liberi prima di essere e poi di fare, senza pregiudizi – ma questo l’ho capito davvero solo in seguito, con la pratica meditativa del raja yoga – possiamo stupirci, riconoscere, riconoscerci. E più frequentiamo questi luoghi inusuali al nostro quotidiano, più andiamo via via a tracciare nuovi sentieri a livello del sistema nervoso, grazie a ciò che gli scienziati chiamano neuroplasticità, rompendo gli schemi a circuito chiuso che solitamente percepiamo come ‘naturali’ e fissi. Il processo di crescita di consapevolezza che origina nella dimensione corporea porta inizialmente a familiarizzare con nuove possibilità motorie ed espressive, indebolendo progressivamente le vecchie abitudini consolidate in automatismi e lasciando maggiore spazio all’azione, in sostituzione alla reazione.
Attraverso i lavori di esplorazione, creazione, osservazione e analisi del movimento, mi sono ritrovata allora, forse per la prima volta in modo così lampante, davanti a qualcosa che era più di uno specchio capace di rimandarmi un’immagine di me stessa in cui avrei potuto non riconoscermi. Ho visto chiaramente, internamente, le mie tendenze, le mie scorciatoie, le mie strategie abituali. 

Improvvisazione durante un workshop con Sono Hoffmann, Life/Art Process®. Daria Mascotto, foto di Laura Colomban
Improvvisazione durante un workshop con Sono Hoffman, Life/Art Process®, 2013

Avevo già incontrato questo tipo di conoscenza esperienziale, derivata dal movimento danzato, attraverso la pratica del Bharata Natyam (teatro-danza dell’India del sud), ma grazie all’analisi dei fattori di movimento di Rudolf Laban ho avuto modo di sperimentare altre qualità, altre modalità relazionali, un diverso rapporto con lo spazio, con il tempo e con il metodo di lavoro.
Differente è innanzitutto il rapporto fra sé e gli altri. Il Bharata Natyam è una danza solista, un percorso spirituale individuale, di centratura, allineamento, equilibrio, in cui la relazione è prevalentemente ricerca dell’unisono o del dialogo ritmico, armonico, geometrico, astratto. Non c’è contatto fisico, né orizzontalità nel contatto con il pavimento.
Non credo sia stato un caso che io sia rimasta affascinata proprio da questo stile: il ritmo e la struttura mi rassicurano, mi contengono, mi sostengono. L’altro c’è, ma è tenuto a distanza, in un rapporto di equilibrio matematico, razionale. I movimenti sono forti, improvvisi e anche se coesistono diverse qualità del gesto contemporaneamente, la complessità viene costantemente organizzata, orchestrata e controllata. Non c’è caos, dissonanza o polifonia. 
E’ stata una gioia di libertà ritrovata e insieme uno smarrimento lavorare a stretto contatto con il gruppo in una dimensione di concretezza umana fatta di peso, di sbilanciamenti, di incertezze, di tempi dettati dall’interno, di dubbi, di gesti che non cercano la perfezione delle forme divine, ma l’espressione della vita umana. Fino ad allora la mia danza era stata tesa alla ricerca di un ideale, per la prima volta mi sono confrontata con una pratica che, invece di contrastare, si lascia permeare dalla complessità del mondo reale. Questo mi ha portata ad entrare in contatto con una percezione meno schematica di quest’arte (e della vita?), spingendomi a sentire con più intensità sfumature, intrecci, stratificazioni e contraddizioni.

Non ha le vie di mezzo, è impaziente, polemica”, mi dicevano fin da bambina. Ho sempre rifiutato queste affermazioni, forse a priori. Eppure mi sono scontrata esattamente contro questi ostacoli. Ho iniziato a vedere la mia fatica nel mediare, nei lavori di composizione di gruppo, tra la mia tendenza a organizzare, ad occupare una posizione centrale, direttiva, critica, guerriera e razionale e la paura di sovrastare gli altri, occupando troppo spazio, dando troppo peso. “Faccio o faccio fare agli altri?”. Tutto o niente. Mi interesso troppo, mi coinvolgo troppo, o mi disinteresso completamente, mi estraneo. Facciamo come voglio io o facciamo come volete voi. Non c’era integrazione fra gli opposti: ascoltarsi, ascoltare, fare insieme. Lasciare accadere. Non c’era spazio per l’ascolto della molteplicità delle emozioni, la fiducia in un’intelligenza profonda, permeante, ‘viscerale‘. Non c’era il tempo per la centratura. Tutto era reazione. Non era una scelta, ma semplicemente un automatismo, un meccanismo di difesa preventiva, di protezione. Andare dritti al punto, alla soluzione logica, mentale, senza attraversare il problema con il corpo, con il respiro, con le sensazioni.
Ho trovato nei compagni di percorso e nel lavoro proposto le persone, lo spazio e la disponibilità per provare a sperimentare qualcosa di diverso, e in me il tempo giusto, la voglia e il coraggio per farlo.
Dopo una prima osservazione e misurazione reciproca, il gruppo si è lasciato andare, si è donato con generosità e allegria. Abbiamo vissuto mesi di risate e sudore, ognuno facendo i conti con i propri limiti e le proprie resistenze, serenamente, giocando. Dal canto mio ho individuato sempre più chiaramente nelle transizioni e nella gradualità i miei punti deboli. Temevo molto più di ora l’indeterminatezza, i vuoti, i silenzi, sebbene già con minore intensità rispetto al passato. Risultavo spesso incalzante, faticavo a stare, a gustare i passaggi, restando in contatto con le emozioni e le sensazioni provate, senza la pretesa di controllarle e dominarle. Osservavo come lo stare nella mente, nel desiderio di controllo, di soddisfazione delle aspettative degli altri e ancor prima delle proprie, porta ad una razionalizzazione che fa perdere il contatto con il sentire, con la semplice gioia del fare in cambio di niente, spostando l’attenzione su quello che si crede di dover sentire, o crede di dover fare. In queste occasioni si crea una frattura, un distacco dall’emozione, dalla passione, dal reale movente che ci anima, dall’ascolto di se stessi e degli altri. In questa dimensione di disgregazione regnano confusione, conflitto interiore, perdita di lucidità, dispersione di energia.
Patanjali, più o meno duemila anni fa, chiamava questo doloroso stato dell’essere avidya. Dovevo averlo già letto da qualche parte al tempo…

A metà percorso, ero commossa, confusa, sola. Più prendevo coscienza dei blocchi, più cresceva in me la convinzione che la strada per arrivare a scioglierli, o quantomeno neutralizzarli, dovesse passare necessariamente dal corpo. Ho visto nuovi passi da percorrere come pure la stanchezza e il bisogno di lasciare depositare, di aspettare una nuova fioritura.
Sono arrivata a fine corsa satura. La richiesta di progettualità e conduzione ha fatto emergere nuovi dubbi e insicurezze. Ciò che prima mi appariva semplice e lineare, ha iniziato a confondermi. Quello che credevo di sapere, mi sfuggiva. Le mappe, i punti di riferimento, le galassie dentro di me si erano spostate e continuavano a muoversi; alcune erano esplose, altre si stavano formando. Tutto da ridisegnare, da ridefinire, da incorporare.
Nella stesura e nella conduzione di un tirocinio, la prospettiva cambia ulteriormente. Gli allievi sono veri, sono lì in carne e ossa, non sono un’ipotesi. La scuola, le maestre, i tempi, le voci, tutto è reale. Cambia il modo di ragionare, di progettare, di scrivere. Saltano agli occhi le piccole cose che fanno la differenza tra una bella idea e una lezione che funziona. Si tocca con mano l’importanza di avere un metodo di lavoro a cui appoggiarsi, ma anche di saper leggere le situazioni e improvvisare.
La conclusione di quell’anno coincise con un periodo che ricordo con grande tenerezza. Fu come una morte. Avevo paura di essere troppo fragile. Invece non fu altro che un nuovo inizio, un giro di ruota. Non avevo trovato risposte, avevo solo affinato un po’ di più le domande.